1. "Eccezione virale" por Jean-Luc Nancy para Antinomie. Scritture e immagini:
Giorgio Agamben, un vecchio amico, sostiene che
il coronavirus differisce appena da una semplice influenza. Dimentica
che per la «normale » influenza disponiamo di un vaccino di provata
efficacia. E anche questo va ogni anno riadattato alle mutazioni virali.
Nonostante ciò la «normale» influenza uccide sempre diverse persone e
il coronavirus per il quale non esiste alcun vaccino è capace di una
mortalità evidentemente ben superiore. La differenza (secondo fonti
dello stesso genere di quelle di Agamben) è di circa 1 a 30: non mi pare
una differenza da poco.
Giorgio afferma che i governi si
appropriano di ogni sorta di pretesto per instaurare continui stati di
eccezione. Ma non nota che l’eccezione diviene, in realtà, la regola in
un mondo in cui le interconnessioni tecniche di ogni specie
(spostamenti, trasferimenti di ogni sorta, esposizioni o diffusioni di
sostanze, ecc.) raggiungono un’intensità fin qui sconosciuta e che
cresce di pari passo alla popolazione. Il moltiplicarsi di quest’ultima
comporta anche nei paesi ricchi l’allungarsi della vita e l’aumento del
numero di persone anziane e in generale di persone a rischio.Non bisogna sbagliare il bersaglio: una civiltà intera è messa in questione, su questo non ci sono dubbi. Esiste una sorta di eccezione virale – biologica, informatica, culturale – che ci pandemizza. I governi non ne sono che dei tristi esecutori e prendersela con loro assomiglia più a una manovra diversiva che a una riflessione politica.
Ho ricordato che Giorgio è un vecchio amico. Mi spiace tirare in ballo un ricordo personale, ma non mi allontano, in fondo, da un registro di riflessione generale. Quasi trent’anni fa, i medici hanno giudicato che dovessi sottopormi a un trapianto di cuore. Giorgio fu una delle poche persone che mi consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito il suo consiglio probabilmente sarei morto ben presto. Ci si può sbagliare. Giorgio resta uno spirito di una finezza e una gentilezza che si possono definire – senza alcuna ironia – eccezionali.
2. "Pensare dentro l'emergenza" por Igino Domanin para Le parole e le cose:
Mi trovo a una piccola riunione tra
amici, è sabato 22 febbraio, arrivano le prime notizie, ormai le
conferme, sul Coronavirus. Ha fatto la sua apparizione improvvisa e
contagiosa a Codogno, nel Lodigano, in realtà un centro vicinissimo a
Milano. Non sono molto cosciente di cosa sta per succedere, ma uno dei
convitati mi ha appena detto di essere passato al supermercato per una
spesa fuori del normale. Provviste di scatolame, qualche pacco di pasta,
non sia mai che scarseggino. Ammetto che questa situazione mi coglie
impreparato, fino a quel momento la visione della città cinese, dove
tutto è nato, appariva lontana e virtuale. Mi faceva venire in mente la
miniserie su Chernobyl.
Gran parte delle nostre percezioni sono
rivolte a costrutti, artefatti, manipolazioni, cose che non esistono
come fatto naturale ed esterno alla nostra azione. Siamo parecchio
abituati a pensare che la nostra condizione di fondo sia in realtà un
prodotto, qualcosa che esiste, in fondo, solo per noi e che dipende da
noi. Un forte anestetico che allenta la necessità di avere dolorose
reazioni empatiche alle catastrofi quotidiane che appaiono nel nostro
mondo mediatizzato. La Natura sembra non preoccupare molto, si muore
sempre più tardi, molte malattie si curano e si prevengono. Anche se
qualche giorno prima di quel famoso sabato, un assicuratore mi ha
proposto una polizza per cure a lungo termine. In pratica, mi dice: lo
sai che ti toccherà vivere a lungo e ti pare bello, ma la vita, quando
invecchi peggiora, e può essere costosissimo viverla se diventi
dipendente da qualcuno che si occupi di te. Ho visto gente distruggere
il patrimonio, forse è meglio che ci pensi adesso a pararti con una
bella polizza. Quando ti capiterà (ed è statistico), che ti becchi una
invalidità, l’assicurazione ci pensa. Ah ecco, siamo dentro il
crepuscolo della probabilità, inchiodati in un corpo destinato a una
lentissima malattia, ma ostinatamente sopravvivente. Non è mica tanto
vero, quindi, che non ci attende la natura, che possiamo vivere
anestetizzati come una sorta di parodia della sostanza pensante
cartesiana. Dobbiamo preoccuparci in modo opaco della nostra corporeità,
impegnati in un lavorio assiduo, dipendente da circostanze accidentali e
fortuite, ma potenzialmente incombenti.
Ed eccomi alla domanda che mi sono
posto, rispetto a certa abitudine filosofica tardonovecentesca
d’infilare tutta la realtà nella finzione, nella mediatizzazione, nel
dispositivo e finanche nelle baggianate dello storytelling. Cosa
succede, invece, quando arriva un pericolo esterno, un’aggressione della
nostra natura umana, che non è in nostro potere e che sconvolge quella
idea molto radicata per cui il tratto fondamentale della condizione
umana parrebbe determinato da questa onnipotenza del volere, da una
supposta artificializzazione assoluta, da una decisione a cui è appesa
l’intera possibilità della realtà? In effetti, il disagio che provoca la
situazione dell’epidemia di Coronavirus, in me e in molti altri, è la
mancanza di risposte. Un’alterità insorta naturalmente, che si rapporta a
me e che non dipende da me e che mi condiziona in modo radicale fino a
minacciare sordamente la mia stessa esistenza. Un’alterità che non è
costrutto, che esorbita dalla mia decisione, che è un Fuori, una
Esteriorità senza ancora un linguaggio in grado di descriverla, ma posso
solo nominarla: Covid 19.
Questa premessa per rispondere a un
articolo di Giorgio Agamben che pretende d’inquadrare nel paradigma
dello “stato d’eccezione” la dimensione sociale dell’epidemia di
Coronavirus. Non mi convince affatto, perché cala dall’alto la certezza
di un modello storico novecentesco senza metterlo alla prova. Si parte
dall’idea che l’epidemia, l’evento virale e patogeno e tutte le sue
conseguenze siano appunto un costrutto, una macchinazione politica, un
“dispositivo” che produce un certo tipo di realtà fondata sulla
necessità del controllo e della normalizzazione medica. Insomma tutta la
pesante assiomatica che ruota intorno a questa surrettizia metafisica
della decisione, non a caso dipendente da una teologia politica, che
ignora la cogenza ontologica della natura e dei suoi eventi. Una natura,
cioè, che è irriducibile all’uomo, al sapere, al linguaggio, ma che
entra prepotentemente in relazione con noi fino a provocare il trauma:
l’assenza di altra parola certa che non sia l’ostinazione del nome,
dell’evocazione costante e ripetuta del “coronavirus”, una realtà ancora
non spiegabile eppure esistente in modo drammatico e incombente.
Abbiamo scoperto di essere esposti
costitutivamente al rischio, in modo massivo e imprevedibile. In realtà,
a ben vedere, la nostra società è calata nell’azzardo e nella
esposizione continua a rischi catastrofici, con i quali deve convivere,
pena la regressione e l’annientamento. In altri termini, non abbiamo
scelta in termini metafisici, siamo destinati storicamente a rapportarci
con una esteriorità che c’invade e ed entra in contatto, che può
contaminarci fino ad ucciderci, ma che possiamo però rendere ospitale e
convivente. Non possiamo stare nei nostri confini senza un po’ di
barbarie. Non esistono fondamenti metafisici ai quali riferirsi, non ci
sono evidenze scientifiche, nemmeno principi etici inderogabili ed
assiomatici. L’indecidibilità, il rischio, l’incertezza, la
vulnerabilità ed altro ancora disegnano una nuova figura storica della
condizione umana.
Jean-Luc Nancy ha giustamente insistito
in una replica, piuttosto secca, ad Agamben che si tratta appunto di
aprire un rapporto positivo con l’esteriorità, con ciò che resta esterno
e non assimilabile, venire a patti con un’alterità che si sa minacciosa
e inconoscibile, ma che appunto impone nuove forme di convivenza su cui
scommettere. Negli anni Ottanta, prima la discussione sul Principio di
Responsabilità formulato da Hans Jonas, poi la Società del rischio
teorizzata da Ulrich Beck e le ricerche antropologiche di Mary Douglas
su Purezza e Pericolo, misero in campo una nuova prospettiva. La
condizione umana è immersa in rischi potenziali insondabili e opachi,
non possiamo uscire dalla esposizione alla catastrofe. In fondo Gunther
Anders si era spinto a pensare a una ormai definitiva immanentizzazione
dell’escatologia. La catastrofe è il nostro presente attuale, la nostra
quotidianità, il nostro rischio costante. Nessuno può ritenersi protetto
da un’immunità già stabilita, tutti devono fare i conti con nuovi modi
contingenti e flessibili di pensare la sicurezza. Tra gli eccessi
euforici dell’ordoliberismo e dell’accelerazione capitalistica dei
flussi transnazionali e la paranoia sovranista che promette una
sicurezza basata sulla mera reazione, forse si dovrebbe mettere in
pratica pazientemente una nuova etica della responsabilità, che a mio
avviso resta importante ancora oggi e dentro l’attualità di questa
emergenza.
Se l’epidemia del Coronavirus ci costringe a pensare dentro l’emergenza, dentro la contingenza spoglia e radicale dell’evento, allora possiamo riprendere confidenza con alcune virtù antiche, ma illuminanti. La prudenza, l’attesa, la pazienza sono l’antidoto morale a una visione paranoica e complottistica del male e della malattia, risorse morali cui attingere senza pretendere di uscire dall’incertezza.
Se l’epidemia del Coronavirus ci costringe a pensare dentro l’emergenza, dentro la contingenza spoglia e radicale dell’evento, allora possiamo riprendere confidenza con alcune virtù antiche, ma illuminanti. La prudenza, l’attesa, la pazienza sono l’antidoto morale a una visione paranoica e complottistica del male e della malattia, risorse morali cui attingere senza pretendere di uscire dall’incertezza.
3. "Anche per lo stato d’eccezione la paura è un boomeran" por Donatella Di Cesare para Il Manifesto:
Sarà un caso che il panico sia esploso soprattutto in quelle
regioni governate dai leghisti, dove da tempo si istiga all’odio, si
indica nell’immigrato il nemico pubblico, portatore di ogni morbo?
Sono in molti a chiederselo. E la domanda sembra trovare conferma nelle recenti uscite dei governatori di turno. Con un colpo di scena l’uno tira fuori una mascherina per coprirsi, «autoisolarsi», dichiararsi a rischio, per sé e per gli altri,
istillando così di nuovo paura – se non fosse che la mascherina nelle sue mani si muta in maschera e tutto assume contorni pagliacceschi.
L’altro rilancia le consuete discriminazioni – noi superiori, loro inferiori, noi sani, loro malati, noi puliti, loro sporchi – e questa volta arriva all’iperbole grottesca dei «topi vivi», quella famosa prelibatezza cinese che tutti conoscono.
Stride un po’ parlare qui di «stato d’eccezione», quel paradigma di governo attraverso cui leggere il mondo attuale, come ce l’ha insegnato magistralmente Giorgio Agamben, il quale lo ha rilanciato su queste pagine (il 26 febbraio scorso).
Al contrario di quel che qualcuno ha sostenuto, il paradigma resta nella sua validità. D’altronde è ormai prassi quotidiana: le procedure democratiche vengono sospese da disposizioni prese nel segno dell’emergenza. Un decreto di qua e un decreto di là: così cittadine e cittadini finiscono per accettare «misure» che dovrebbero garantirne la sicurezza, ma che in effetti ne limitano fortemente la libertà. I provvedimenti presi negli ultimi giorni da governo e regioni – in ordine sparso – sono emblematici. Si giunge fino a chiudere i luoghi della cultura, a vietare manifestazioni e riunioni. Sono «misure» che hanno – inutile dirlo – un sapore autoritario e un carattere inquietante.
Ma sembra che lo «stato d’eccezione» non basti per un mondo così complesso come quello globalizzato, dove la paura svolge ormai un ruolo politico decisivo. Paura per l’estraneo, xenofobia, quella che spinge a erigere barriere e muri, insieme, però, anche alla paura per tutto ciò che è fuori, exofobia, che induce a rinserrarsi nella propria nicchia, a immunizzarsi, proteggersi, guardando quel che accade attraverso lo schermo rassicurante.
La pulsione securitaria è fomentata. Così come fomentata è quella che alcuni scambiano per indifferenza, come se si trattasse di una questione etica, e che è piuttosto una tetania affettiva con tanto di ragion di Stato. È indubbio che si usi biecamente la paura per governare. Proprio per questo il sovranismo, soprattutto quello anti-immigrati, non è una riedizione del vecchio nazionalismo. È un fenomeno nuovo: fa leva sul timore dell’altro, l’allarme per ciò che viene da fuori, l’ansia della precarietà, la voglia di esserne immuni.
Ma questo è solo un aspetto. Perché il governante, che scherza con il fuoco della paura, finisce per restarne bruciato. Mentre crede di amministrare a puntino l’odio, di gestire debitamente la paura, tutto gli sfugge di mano. Questo è il punto: la governance, che vorrebbe governare all’insegna dello stato d’eccezione, a sua volta è governata da quel che si rivela ingovernabile. È questo rovesciamento continuo che colpisce, impressiona. Il modello qui è quello della tecnica: chi la impiega, viene impiegato, chi ne dispone, viene scalzato.
La democrazia immunitaria è perciò un’inedita forma di governance dove la politica, ridotta ad amministrazione, per un verso si rimette al dettato dell’economia planetaria, per l’altro si autosospende abdicando alla scienza – «facciamo parlare gli esperti!» – che s’immagina oggettiva, vera, risolutiva. Come se la scienza fosse neutra e neutrale, come se non fosse già da tempo strettamente connessa con la tecnica, altamente tecnicizzata.
Così lo Stato di sicurezza si rivela uno Stato medico-pastorale che garantisce l’immunizzazione al cittadino-paziente, pronto, dal canto suo, a seguire – tra diritto all’amuchina e divieto di ammucchiata – ogni regola igienico-sanitaria che lo protegga dal contagio, cioè dal contatto con l’altro. Non si sa dove finisce il diritto e dove comincia la sanità.
Il coronavirus, questo virus sovrano già nel nome, si fa beffe del sovranismo d’eccezione, che vorrebbe grottescamente profittarne. Sfugge, glissa, passa oltre, varca i confini. E diventa metafora di una crisi ingovernabile, di un crollo apocalittico. Ma il capitalismo, lo sappiamo, non è un disastro naturale.
(continuará)
Sono in molti a chiederselo. E la domanda sembra trovare conferma nelle recenti uscite dei governatori di turno. Con un colpo di scena l’uno tira fuori una mascherina per coprirsi, «autoisolarsi», dichiararsi a rischio, per sé e per gli altri,
istillando così di nuovo paura – se non fosse che la mascherina nelle sue mani si muta in maschera e tutto assume contorni pagliacceschi.
L’altro rilancia le consuete discriminazioni – noi superiori, loro inferiori, noi sani, loro malati, noi puliti, loro sporchi – e questa volta arriva all’iperbole grottesca dei «topi vivi», quella famosa prelibatezza cinese che tutti conoscono.
Stride un po’ parlare qui di «stato d’eccezione», quel paradigma di governo attraverso cui leggere il mondo attuale, come ce l’ha insegnato magistralmente Giorgio Agamben, il quale lo ha rilanciato su queste pagine (il 26 febbraio scorso).
Al contrario di quel che qualcuno ha sostenuto, il paradigma resta nella sua validità. D’altronde è ormai prassi quotidiana: le procedure democratiche vengono sospese da disposizioni prese nel segno dell’emergenza. Un decreto di qua e un decreto di là: così cittadine e cittadini finiscono per accettare «misure» che dovrebbero garantirne la sicurezza, ma che in effetti ne limitano fortemente la libertà. I provvedimenti presi negli ultimi giorni da governo e regioni – in ordine sparso – sono emblematici. Si giunge fino a chiudere i luoghi della cultura, a vietare manifestazioni e riunioni. Sono «misure» che hanno – inutile dirlo – un sapore autoritario e un carattere inquietante.
Ma sembra che lo «stato d’eccezione» non basti per un mondo così complesso come quello globalizzato, dove la paura svolge ormai un ruolo politico decisivo. Paura per l’estraneo, xenofobia, quella che spinge a erigere barriere e muri, insieme, però, anche alla paura per tutto ciò che è fuori, exofobia, che induce a rinserrarsi nella propria nicchia, a immunizzarsi, proteggersi, guardando quel che accade attraverso lo schermo rassicurante.
La pulsione securitaria è fomentata. Così come fomentata è quella che alcuni scambiano per indifferenza, come se si trattasse di una questione etica, e che è piuttosto una tetania affettiva con tanto di ragion di Stato. È indubbio che si usi biecamente la paura per governare. Proprio per questo il sovranismo, soprattutto quello anti-immigrati, non è una riedizione del vecchio nazionalismo. È un fenomeno nuovo: fa leva sul timore dell’altro, l’allarme per ciò che viene da fuori, l’ansia della precarietà, la voglia di esserne immuni.
Ma questo è solo un aspetto. Perché il governante, che scherza con il fuoco della paura, finisce per restarne bruciato. Mentre crede di amministrare a puntino l’odio, di gestire debitamente la paura, tutto gli sfugge di mano. Questo è il punto: la governance, che vorrebbe governare all’insegna dello stato d’eccezione, a sua volta è governata da quel che si rivela ingovernabile. È questo rovesciamento continuo che colpisce, impressiona. Il modello qui è quello della tecnica: chi la impiega, viene impiegato, chi ne dispone, viene scalzato.
La democrazia immunitaria è perciò un’inedita forma di governance dove la politica, ridotta ad amministrazione, per un verso si rimette al dettato dell’economia planetaria, per l’altro si autosospende abdicando alla scienza – «facciamo parlare gli esperti!» – che s’immagina oggettiva, vera, risolutiva. Come se la scienza fosse neutra e neutrale, come se non fosse già da tempo strettamente connessa con la tecnica, altamente tecnicizzata.
Così lo Stato di sicurezza si rivela uno Stato medico-pastorale che garantisce l’immunizzazione al cittadino-paziente, pronto, dal canto suo, a seguire – tra diritto all’amuchina e divieto di ammucchiata – ogni regola igienico-sanitaria che lo protegga dal contagio, cioè dal contatto con l’altro. Non si sa dove finisce il diritto e dove comincia la sanità.
Il coronavirus, questo virus sovrano già nel nome, si fa beffe del sovranismo d’eccezione, che vorrebbe grottescamente profittarne. Sfugge, glissa, passa oltre, varca i confini. E diventa metafora di una crisi ingovernabile, di un crollo apocalittico. Ma il capitalismo, lo sappiamo, non è un disastro naturale.
(continuará)
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