martes, 31 de marzo de 2020

Una crítica erudita y sensata de Agamben

Dal contagio alla vita. E ritorno. Ancora in margine alle parole di Agamben


por Luca Illetterati para Le Parole e le Cose


I

In molti hanno commentato il piccolo testo di Giorgio Agamben intitolato Contagio, pubblicato sul blog di Quodlibet l’11 marzo 2020, nonché quello successivo, intitolato Chiarimenti, pubblicato il 17 marzo a seguito di una serie di pesanti critiche. Nel primo Agamben rifletteva sulle devastazioni prodotte dalle norme emergenziali a fronte di quella che chiamava la cosiddetta epidemia. Nel secondo cercava di dare giustificazione a quanto detto, asserendo che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese e le norme che essa ha prodotto mostrerebbe con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita, ovvero nella paura di perderla. Il 27 marzo ne è uscito un altro, Riflessioni sulla peste, nel quale in primo luogo cerca di mostrare in che senso la quieta e acritica sottomissione dei cittadini alle norme emergenziali evidenzi una evidente continuità tra la forma di vita da essa imposta con una forma di vita già diventata abitudine prima ancora dell’epidemia e in secondo luogo cerca di evidenziare in che senso la scienza dentro questo clima vada sempre più assumendo il ruolo di nuova religione universale, di nuovo credo al quale affidarsi. Nulla, dunque, che cambi la sostanza del discorso; semmai un suo ulteriore rafforzamento.

Numerosi interventi hanno messo in evidenza l’effetto di quelle righe, soprattutto di quelle dei primi due testi: esse producono una sensazione di meccanicità scontata, frutto dell’applicazione di formule e pensieri che rendono banalmente prevedibile la sostanza del discorso. Si è detto che se qualcuno avesse voluto giocare a fare la caricatura di Agamben, avrebbe prodotto un testo non così diverso da quello realmente elaborato da Agamben®. Alcuni l’hanno quindi banalmente ridicolizzato, altri ne hanno mostrato, con argomenti di diverso tipo, l’insufficienza. In generale l’impressione è stata quella di un’incapacità di presa sul reale. E non perché i pericoli che Agamben paventa siano privi di realtà: la possibile degenerazione dei rapporti umani all’interno di una dimensione in cui l’altro è percepito solo come minaccia, il rischio di una lenta e silente abitudine a una vita a distanza – retta da protocolli esterni cui le singole vite devono necessariamente e passivamente adeguarsi –, l’imporsi di modalità di azione sempre più regolate da strutture algoritmiche, la tentazione in direzione di derive autoritarie (si pensi al modo in cui Orban sta sfruttando l’emergenza per piegare un sistema già debole dal punto di vista democratico verso una condizione paradittatoriale); questi sono pericoli reali, effettivi, che necessitano di uno sguardo critico attento e radicale. Ciò che produce il senso di mancata presa sul reale, nell’atteggiamento agambeniano, è piuttosto l’incapacità di leggere l’epidemia per ciò che essa rappresenta per l’esistenza concreta delle singole vite e delle comunità dentro cui quelle vite sono ciò che sono. Di fatto, Agamben riduce la singola vita a mero prodotto di un dispositivo – il dispositivo del potere – che avrebbe come unico obiettivo quello del controllo delle vite e delle loro azioni. In questo senso Agamben viene a trovarsi, per quanto per motivi diversi, sulla stessa barca di Donald Trump, secondo il quale la terapia è peggiore dell’epidemia, o di Bolsonaro, secondo il quale l’epidemia non deve indurre ad azioni straordinarie, ma si deve rimanere ancorati alla normalità, o in generale di tutti coloro che ritengono sacrifacabili le nude vite sull’altare dell’economia.

Qui, senza insistere sugli elementi che si prestano alla polemica immediata, vorrei provare a mettere in questione – nei limiti di un testo breve – uno degli assunti di base del discorso agambeniano, ovvero la differenza tra quella che viene chiamata la “nuda vita” da un lato, e la vita nel suo senso invece più pieno (di vita affettiva, sociale, politica) dall’altro. Questa differenza per certi aspetti viene decostruita nei lavori maggiori di Agamben, eppure in un certo modo rimane decisiva e fondante, tanto da attraversare in modo niente affatto marginale questi due piccoli interventi, che, pur nella loro stringatezza e occasionalità, ci svelano qualcosa di interessante sul pensiero ‘maggiore’ da cui dipendono.

L’idea che sta alla base della critica agambeniana ai dispositivi emergenziali che la crisi epidemiologica ha legittimato è la seguente: nel momento in cui siamo disposti a sacrificare tutto alla nuda vita, ossia alla mera esistenza – sinonimo, se si vuole, di vita biologica – allora, ipso facto, abbiamo anche cancellato la possibilità stessa di una vita autenticamente umana, di quella vita che, aristotelicamente, può essere chiamata come una buona vita. In questo senso l’emergenza COVID-19 non renderebbe solo manifesto un elemento consustanziale al dispositivo politico moderno, ma sarebbe in qualche modo un suo prodotto, l’articolazione di un’esigenza inerente a quel dispositivo.

Senza entrare nel dettaglio dell’analisi agambeniana, ciò che intendo sostenere è che il discorso che si muove dentro una distinzione siffatta – ovvero quella tra “nuda vita” e “vita piena” – è un discorso che anziché superare alcune astrazioni e presupposizioni, come vorrebbe, le assume invece in un modo tale da renderle determinanti per il suo stesso svolgimento.

L’idea che intendo qui solo suggerire è che sia necessario un pensiero della vita più radicale di quello proposto da Agamben, il quale è tutto giocato nel rimbalzare archeologicamente e concettualmente da una astrazione all’altra. Abbiamo bisogno di un pensiero della vita che sia in grado di porsi davvero al di là delle distinzioni tra il “naturale” e il “politico”, tra l’ “organico” e il “sociale”, senza tuttavia per questo annientarle. Queste distinzioni invece escono continuamente rinforzate dal discorso agambeniano, e rischiano di produrre gli esiti sconfortanti cui egli giunge nei due piccoli testi sopra menzionati. Si tratta invece di pensare il rapporto tra il politico e il naturale, tra il sociale e l’organico in un’ottica non oppositiva, bensì come dinamiche interne all’immanenza della vita stessa.

La base del dispositivo discorsivo di Agamben è, come noto, il pensiero di Walter Benjamin, e in particolare, l’enfatizzazione dell’idea benjaminiana di nuda vita, ovvero, come ha messo in evidenza Mario Farina in uno dei contributi seguiti alle uscite di Agamben, la “traduzione tendenziosa e retorica del benjaminiano «bloße Leben», più prosaicamente rendibile con «mera vita»”.

Nel saggio Per la critica della violenza, Benjamin infatti scrive:

Falsa e miserabile è la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dire altro che la nuda vita (bloße Leben)[i]

È perciò da Benjamin che intendo prendere le mosse, anche se da un testo che apparentemente si muove su un piano radicalmente diverso rispetto a quelli nei quali viene in effetti tematizzato il concetto di bloße Leben, ovvero Il compito del traduttore. In questo testo, infatti – forse proprio perché il tema non coinvolge in modo diretto la nozione di bloße Leben – è possibile cogliere la traccia di un pensiero della vita che è in grado di andare al di là delle astrazioni in cui resta invece impigliato il discorso di Agamben.

II

Nel saggio dedicato al compito del traduttore, Benjamin mostra in che senso il rapporto tra le lingue debba essere inteso come un rapporto di vita (Zusammenhang des Lebens). In questo contesto si ritrova quindi a dover chiarire che cosa si debba intendere, all’interno del suo orizzonte discorsivo, con il termine ‘vita’.

La questione emerge in quanto per Benjamin la traduzione, come noto, è il luogo della sopravvivenza (Überleben) dell’originale. La traduzione è una sorta di “vita” dell’opera al di là di sé stessa, fuori da sé, in altro rispetto a sé. È una vita dell’opera che vive altrove rispetto all’opera stessa. Il che significa che la traduzione non è qualcosa che inerisce in senso proprio alla vita dell’originale. La traduzione, infatti, non significa nulla per l’originale. Essa gli è in un certo senso indifferente. È appunto una vita dell’originale al di là dell’originale, fuori da esso.

E tuttavia, pur riconosciuta questa indifferenza, la traducibilità di un’opera è secondo Benjamin un carattere intrinseco all’opera stessa. Il che non implica, ancora una volta, che la traduzione delle opere «sia essenziale per le opere stesse» (40), ma che invece – e questo scarto è rilevantissimo nell’argomentazione benjaminiana – «un determinato significato inerente agli originali si manifesta nella loro traducibilità». In questo senso la traduzione – ovvero la sopravvivenza – può portare a galla qualcosa dell’originale e della sua vita senza per questo intaccare l’originale stesso, senza per questo incidere sulla sua vita.

Così dunque, Benjamin:

Come le manifestazioni (Äusserungen) vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per lui, così la traduzione procede (hervorgeht) dall’originale anche se non dalla sua vita, quanto piuttosto dalla sua «sopravvivenza» (Überleben)[ii].

Il lessico tutto interno alle determinazioni della vita e del vivente non è utilizzato da Benjamin in senso metaforico:

È in senso pienamente concreto, e non metaforico, che bisogna intendere l’idea della vita e della sopravvivenza (Fortleben) delle opere d’arte[iii].

Ed è proprio nel tentativo di chiarire «questo senso pienamente concreto e non metaforico (völlig unmetaphoriscer Sachlichkeit)» che Benjamin si sofferma sulla nozione di vita.

La vita, dice Benjamin, non è solamente o principalmente qualcosa che «si debba attribuire solo alla fisicità organica (organische Leiblichkeit)» (41), non è cioè semplicemente la proprietà di un corpo organico. Nemmeno però è sufficiente pensarla in termini più estesi come caratteristica di tutto ciò che ha un’anima (il riferimento di Benjamin è qui Theodor Fechner). Ed è altrettanto insufficiente concepirla, magari per attribuirle un significato più determinato e concreto, in relazione ad alcune caratteristiche specifiche dell’animalità, quali la possibilità di sentire (empfinden). Tutte queste sono certo determinazioni della vita, ma nessuna di esse costituisce il suo modo d’essere, nel senso nessuna di esse e nemmeno la considerazione unitaria di esse esaurisce la semantica della vita.

Se si vuole davvero pensare la vita, dice Benjamin, non la si può pensare nei termini di una mera naturalità:

È solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia (Geschichte) e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia al concetto di vita. Poiché è in base alla storia, e non alla natura, per tacere di una natura così incerta come il sentire o l’anima, che va determinato, in ultima istanza, l’ambito della vita[iv].

La vita non è dunque secondo Benjamin qualcosa che appartiene alla natura in quanto tale. Si dà vita, dice Benjamin dove si dà storia. Solo nella storia, la vita è sé stessa. Così facendo, Benjamin raccoglie con la potenza di un tratto la straordinaria complessità che attraversa la cultura tedesca dal primo romanticismo fino allo storicismo tardo ottocentesco.

Ciò che è decisivo, a mio parere, è il riconoscimento benjaminiano che la vita della storia non è una vita che si pone al di là della natura. Ciò che semmai Benjamin evidenza è, al contrario, che la nozione di vita naturale è solo un’astrazione, un tentativo di chiudere la vita dentro una dimensione che si pretende separata dalla storia, senza in realtà poterlo essere.

Il compito del filosofo, infatti, secondo Benjamin (e vale la pena qui ricordare che il termine che sta per compito, che troviamo qui come anche nel titolo del saggio – ovvero Aufgabe – significa anche vocazione, dovere, funzione, ruolo) non è quello di contrapporre alla vita naturale una vita della storia, quanto invece «di intendere ogni vita naturale in base a quella più ampia della storia».

Benjamin non contrappone dunque la vita naturale a quella che la cultura idealistica avrebbe chiamato la vita dello spirito, non pensa cioè che esista una vita meramente biologica in contrapposizione alla quale si staglierebbe la vita del mondo storico e quindi del mondo sociale e politico. La funzione del discorso filosofico dovrebbe essere quella di mostrare l’inconsistenza di queste cristallizzazioni, ovvero di scioglierne la rigidità rivelandone l’unilateralità, l’astrattezza, ovvero il loro essere costruzioni a loro volta storiche e dunque ideologiche. In questo senso, l’idea che nell’umano si possa pensare una vita naturale che starebbe accanto alla vita invece spirituale è il riflesso ideologico di una metafisica che ha già preventivamente assunto e dato per scontato che natura e spirito siano regni ontologici separati, che vengono definiti e individuati solo a partire dalla loro contrapposizione.

III.

Detto in termini se si vuole banali e certamente frettolosi, ciò che Benjamin invita a pensare (ed è un invito che oggi più che mai è opportuno raccogliere) non è affatto il porsi al di là della mera vita per accedere a una vita piena, come se nell’umano esistesse una vita ‘semplicemente naturale’ separata da una vita invece ’storica’ e dunque politica. Si tratta invece di pensare la vita al di là delle astrazioni e delle unilateralità, senza separare artificialmente e ideologicamente la dimensione naturale e quella storica, la dimensione biologica e quella politica, la dimensione organica e quella sociale, la dimensione individuale e quella comunitaria. In termini hegeliani, si tratta di pensare la vita nella sua complessa concretezza, al di là delle astratte distinzioni dell’intelletto.

In questo senso, quella che ad Agamben appare come la difesa della “mera vita” è in realtà protezione di quella medesima vita che si dà anche come vita politica e come vita sociale, ovvero come piena vita. Tant’è che in questo caso la protezione di quella che Agamben continua a considerare come la nuda vita è anche protezione della vita degli altri. Per questo, come ho detto inizialmente, sembra che Agamben rimanga vittima dell’astrazione che egli stesso vuole denunciare. Sostenendo che i protocolli emergenziali pensino alla vita solo in termini di pura esistenza, si trova egli stesso a far propria questa riduzione, mancando così di cogliere la dimensione concreta della vita, dentro la quale quella separazione viene a sciogliersi.

La critica di Agamben alla riduzione della vita a nuda vita va incontro a esiti paradossali proprio perché muove da una concettualizzazione dualista, da cui non riesce in ultima istanza a liberarsi. Un’autentica critica è invece possibile solo all’interno di un orizzonte concettuale che proprio in quanto si pone al di là delle opposizioni è perciò in grado di rilevare l’unilateralità delle concezioni che pretendono di esaurirne il senso schiacciandolo dentro l’unilateralità degli estremi. In questo senso, solo se si pensa la vita nella sua complessità e fuori dalle astrazioni ideologiche che tendono a considerarla o come semplicemente naturale o come qualcosa che si costituisce al di là della natura, si è davvero nelle condizioni per criticare qualsiasi riduzione unilaterale della vita.

Pensare la vita nella sua complessità – quindi al di là delle astrazioni che la riducono a determinazioni solo parziali – significa innanzitutto pensare la vita come struttura né solamente naturalizzabile né solamente storicizzabile, quindi pensarla come rapporto o nesso intrinseco tra ciò che tendiamo a pensare come il “regno della natura” e ciò che tendiamo a pensare come il “regno della libertà”.

Una tale prospettiva trova una sua specifica articolazione dentro la discussione filosofica che si sviluppa tra Kant e Hegel, per i quali la vita è una realtà e un concetto che spezza tutti i dualismi: da quello tra anima e corpo a quello tra soggetto e oggetto, da quello tra sostanza e processo a quello tra natura e libertà.

Nel primo paragrafo della Critica della capacità di giudizio, Kant scrive:

non ci sono che due tipi di concetti che permettono altrettanti principi diversi della possibilità dei loro oggetti: cioè, i concetti della natura e il concetto della libertà. (…) dunque, è giusto suddividere la filosofia in due parti, del tutto diverse secondo i loro principi, cioè nella teoretica, la filosofia naturale, e nella pratica, la filosofia morale (è così infatti che si chiama la legislazione pratica della ragione secondo il concetto della libertà)[v].

La vita, però, non appartiene in senso proprio né al mondo della natura, né al mondo della libertà. Anzi, proprio perché non appartiene né all’uno né all’altro, di essa, secondo Kant, non si dà concetto. La vita è per Kant strutturalmente inconcepibile. Possiamo considerare gli esseri viventi, la loro struttura organizzativa, la complessità del rapporto fra il tutto e le parti che li costituisce, la loro specifica autopoiesi. Con questa comprensione, però, non abbiamo concepito la vita. La forza formante, l’autorganizzazione, ovvero la vita, rimane per Kant una unerforschliche Eigenschaft, una proprietà insondabile, un alcunché di imperscrutabile.

Dire però che la vita non appartiene né al mondo della natura, né al mondo della libertà significa dire – ed è questa sostanzialmente la mossa hegeliana che usa Kant per andare al di là di Kant – che essa abita lo spazio liminare che separa e connette i due ambiti, ovvero che essa certo non è né natura né libertà, ma anche, a un tempo, che essa, proprio in quanto non è riducibile a nessuno dei due estremi ha a che fare tanto con la natura quanto con la libertà.

Per Hegel la vita è dunque ciò che si pone al di là di tutte le astrazioni con cui l’intelletto cerca di controllare, vincolare e trattenere il reale. In questo senso la vita, considerata nella sua concretezza, è ciò che fa esplodere le rigide schematizzazioni e compartimentazioni dell’intelletto. E questo perché la vita è, secondo Hegel, soggetto e oggetto, pensiero ed essere, anima e corpo, finito e infinito, natura e libertà.

Porsi sulla scia di un pensiero come quello sviluppato da Kant e Hegel, senza per questo pretendere insensate attualizzazioni, è fruttuoso proprio per cercare di uscire dalle tentazioni dualistiche che innervano, in modo peraltro non sempre riconosciuto, un’impostazione come quella di Agamben.

Finché si assume che da una parte ci sia la nuda vita, intesa come mera esistenza, e dunque come mera natura, e dall’altra la vita nella sua dimensione storica, e quindi nella sua dimensione sociale e politica , ovvero come luogo di articolazione della libertà, ci si continua a muovere dentro un dualismo che chiede a ciascuna delle dimensioni di entrare necessariamente in conflitto l’una con l’altra e si legittima in questo modo il dominio di una parte sull’altra e quindi la riduzione dell’una all’altra.

Pensare la complessità della vita significa allora pensare in che senso la sua stessa dinamica – la dinamica della vita – sia il nucleo generatore della libertà e come solo la libertà sia in grado di realizzare la dinamica che la vita attiva. Pensare la complessità della vita, ancora, significa pensare il radicamento della libertà nella vita, nella sua peculiare autonomia, nella sua intrinseca generatività e nella sua capacità di difendersi dall’entropia e al tempo stesso il radicamento della vita nella libertà, ovvero nella capacità di essere inizio di sé, di essere norma a sé, di essere movimento in vista della costituzione e della realizzazione di sé.

Se c’è qualcosa, dal mio punto di vista, che le vicende di questi giorni richiedono di pensare e ripensare è dunque la sclerotizzazione delle nostre prassi discorsive dentro opposizioni che si reggono solo a partire dalla loro reciproca unilateralità.

Pensare l’innaturalità della natura e la naturalità dello spirito, ovvero ripensare in dialogo con le scienze della natura la nozione stessa di natura e ripensare in dialogo con le scienze umane ciò che la tradizione chiamava il mondo dello spirito, ovvero l’ambito della libertà e dunque la dimensione intersoggettiva e propriamente politica, senza ridurre per questo l’una all’altra e tuttavia cogliendone i nessi proprio a partire dalla nozione di vita è forse uno dei compiti (ovvero, ancora una volta, delle vocazioni, dei doveri, delle funzioni, dei ruoli) a cui la filosofia è oggi più che mai chiamata.

Note

[i] W. Benjamin, Per la crtica della violenza, in Id., Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 5-30, qui p. 28).
[ii] W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Angelus Novus, cit., pp. 39-52, qui p. 41).
[iii] Ibidem.
[iv] Ibidem.
[v] I. Kant, Critica della capacità di giudizio, trad. it. a cura di L. Amoroso, Milano 19982, p. 73.

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