Dal contagio alla vita. E ritorno. Ancora in margine alle parole di Agamben
por Luca Illetterati para Le Parole e le Cose
por Luca Illetterati para Le Parole e le Cose
I
In molti hanno commentato il piccolo testo di Giorgio Agamben intitolato Contagio, pubblicato sul blog di Quodlibet l’11 marzo 2020, nonché quello successivo, intitolato Chiarimenti,
pubblicato il 17 marzo a seguito di una serie di pesanti critiche. Nel
primo Agamben rifletteva sulle devastazioni prodotte dalle norme
emergenziali a fronte di quella che chiamava la cosiddetta epidemia.
Nel secondo cercava di dare giustificazione a quanto detto, asserendo
che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese e le norme che essa
ha prodotto mostrerebbe con evidenza che la nostra società non crede più
in nulla se non nella nuda vita, ovvero nella paura di perderla. Il 27
marzo ne è uscito un altro, Riflessioni sulla peste,
nel quale in primo luogo cerca di mostrare in che senso la quieta e
acritica sottomissione dei cittadini alle norme emergenziali evidenzi
una evidente continuità tra la forma di vita da essa imposta con una
forma di vita già diventata abitudine prima ancora dell’epidemia e in
secondo luogo cerca di evidenziare in che senso la scienza dentro questo
clima vada sempre più assumendo il ruolo di nuova religione universale,
di nuovo credo al quale affidarsi. Nulla, dunque, che cambi la sostanza
del discorso; semmai un suo ulteriore rafforzamento.
Numerosi interventi hanno messo in
evidenza l’effetto di quelle righe, soprattutto di quelle dei primi due
testi: esse producono una sensazione di meccanicità scontata, frutto
dell’applicazione di formule e pensieri che rendono banalmente
prevedibile la sostanza del discorso. Si è detto che se qualcuno avesse
voluto giocare a fare la caricatura di Agamben, avrebbe prodotto un
testo non così diverso da quello realmente elaborato da Agamben®. Alcuni
l’hanno quindi banalmente ridicolizzato, altri ne hanno mostrato, con
argomenti di diverso tipo, l’insufficienza. In generale l’impressione è
stata quella di un’incapacità di presa sul reale. E non perché i
pericoli che Agamben paventa siano privi di realtà: la possibile
degenerazione dei rapporti umani all’interno di una dimensione in cui
l’altro è percepito solo come minaccia, il rischio di una lenta e
silente abitudine a una vita a distanza – retta da protocolli esterni
cui le singole vite devono necessariamente e passivamente adeguarsi –,
l’imporsi di modalità di azione sempre più regolate da strutture
algoritmiche, la tentazione in direzione di derive autoritarie (si pensi
al modo in cui Orban sta sfruttando l’emergenza per piegare un sistema
già debole dal punto di vista democratico verso una condizione
paradittatoriale); questi sono pericoli reali, effettivi, che
necessitano di uno sguardo critico attento e radicale. Ciò che produce
il senso di mancata presa sul reale, nell’atteggiamento agambeniano, è
piuttosto l’incapacità di leggere l’epidemia per ciò che essa
rappresenta per l’esistenza concreta delle singole vite e delle comunità
dentro cui quelle vite sono ciò che sono. Di fatto, Agamben riduce la
singola vita a mero prodotto di un dispositivo – il dispositivo del
potere – che avrebbe come unico obiettivo quello del controllo delle
vite e delle loro azioni. In questo senso Agamben viene a trovarsi, per
quanto per motivi diversi, sulla stessa barca di Donald Trump, secondo
il quale la terapia è peggiore dell’epidemia, o di Bolsonaro, secondo il
quale l’epidemia non deve indurre ad azioni straordinarie, ma si deve
rimanere ancorati alla normalità, o in generale di tutti coloro che
ritengono sacrifacabili le nude vite sull’altare dell’economia.
Qui, senza insistere sugli elementi che
si prestano alla polemica immediata, vorrei provare a mettere in
questione – nei limiti di un testo breve – uno degli assunti di base del
discorso agambeniano, ovvero la differenza tra quella che viene
chiamata la “nuda vita” da un lato, e la vita nel suo senso invece più
pieno (di vita affettiva, sociale, politica) dall’altro. Questa
differenza per certi aspetti viene decostruita nei lavori maggiori di
Agamben, eppure in un certo modo rimane decisiva e fondante, tanto da
attraversare in modo niente affatto marginale questi due piccoli
interventi, che, pur nella loro stringatezza e occasionalità, ci svelano
qualcosa di interessante sul pensiero ‘maggiore’ da cui dipendono.
L’idea che sta alla base della critica
agambeniana ai dispositivi emergenziali che la crisi epidemiologica ha
legittimato è la seguente: nel momento in cui siamo disposti a
sacrificare tutto alla nuda vita, ossia alla mera esistenza – sinonimo, se si vuole, di vita biologica – allora, ipso facto,
abbiamo anche cancellato la possibilità stessa di una vita
autenticamente umana, di quella vita che, aristotelicamente, può essere
chiamata come una buona vita. In questo senso l’emergenza
COVID-19 non renderebbe solo manifesto un elemento consustanziale al
dispositivo politico moderno, ma sarebbe in qualche modo un suo
prodotto, l’articolazione di un’esigenza inerente a quel dispositivo.
Senza entrare nel dettaglio dell’analisi
agambeniana, ciò che intendo sostenere è che il discorso che si muove
dentro una distinzione siffatta – ovvero quella tra “nuda vita” e “vita
piena” – è un discorso che anziché superare alcune astrazioni e
presupposizioni, come vorrebbe, le assume invece in un modo tale da
renderle determinanti per il suo stesso svolgimento.
L’idea che intendo qui solo suggerire è
che sia necessario un pensiero della vita più radicale di quello
proposto da Agamben, il quale è tutto giocato nel rimbalzare
archeologicamente e concettualmente da una astrazione all’altra. Abbiamo
bisogno di un pensiero della vita che sia in grado di porsi davvero al
di là delle distinzioni tra il “naturale” e il “politico”, tra l’
“organico” e il “sociale”, senza tuttavia per questo annientarle. Queste
distinzioni invece escono continuamente rinforzate dal discorso
agambeniano, e rischiano di produrre gli esiti sconfortanti cui egli
giunge nei due piccoli testi sopra menzionati. Si tratta invece di
pensare il rapporto tra il politico e il naturale, tra il sociale e
l’organico in un’ottica non oppositiva, bensì come dinamiche interne
all’immanenza della vita stessa.
La base del dispositivo discorsivo di
Agamben è, come noto, il pensiero di Walter Benjamin, e in particolare,
l’enfatizzazione dell’idea benjaminiana di nuda vita, ovvero, come ha messo in evidenza Mario Farina in uno dei contributi
seguiti alle uscite di Agamben, la “traduzione tendenziosa e retorica
del benjaminiano «bloße Leben», più prosaicamente rendibile con «mera
vita»”.
Nel saggio Per la critica della violenza, Benjamin infatti scrive:
Falsa e miserabile è
la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se
esistenza non vuol dire altro che la nuda vita (bloße Leben)[i]
È perciò da Benjamin che intendo
prendere le mosse, anche se da un testo che apparentemente si muove su
un piano radicalmente diverso rispetto a quelli nei quali viene in
effetti tematizzato il concetto di bloße Leben, ovvero Il compito del traduttore. In questo testo, infatti – forse proprio perché il tema non coinvolge in modo diretto la nozione di bloße Leben
– è possibile cogliere la traccia di un pensiero della vita che è in
grado di andare al di là delle astrazioni in cui resta invece impigliato
il discorso di Agamben.
II
Nel saggio dedicato al compito del
traduttore, Benjamin mostra in che senso il rapporto tra le lingue debba
essere inteso come un rapporto di vita (Zusammenhang des Lebens).
In questo contesto si ritrova quindi a dover chiarire che cosa si debba
intendere, all’interno del suo orizzonte discorsivo, con il termine
‘vita’.
La questione emerge in quanto per Benjamin la traduzione, come noto, è il luogo della sopravvivenza (Überleben) dell’originale.
La traduzione è una sorta di “vita” dell’opera al di là di sé stessa,
fuori da sé, in altro rispetto a sé. È una vita dell’opera che vive
altrove rispetto all’opera stessa. Il che significa che la traduzione
non è qualcosa che inerisce in senso proprio alla vita dell’originale.
La traduzione, infatti, non significa nulla per l’originale. Essa gli è
in un certo senso indifferente. È appunto una vita dell’originale al di là dell’originale, fuori da esso.
E tuttavia, pur riconosciuta questa
indifferenza, la traducibilità di un’opera è secondo Benjamin un
carattere intrinseco all’opera stessa. Il che non implica, ancora una
volta, che la traduzione delle opere «sia essenziale per le opere
stesse» (40), ma che invece – e questo scarto è rilevantissimo
nell’argomentazione benjaminiana – «un determinato significato inerente
agli originali si manifesta nella loro traducibilità». In questo senso
la traduzione – ovvero la sopravvivenza – può portare a galla qualcosa
dell’originale e della sua vita senza per questo intaccare l’originale
stesso, senza per questo incidere sulla sua vita.
Così dunque, Benjamin:
Come le manifestazioni (Äusserungen) vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per lui, così la traduzione procede (hervorgeht) dall’originale anche se non dalla sua vita, quanto piuttosto dalla sua «sopravvivenza» (Überleben)[ii].
Il lessico tutto interno alle determinazioni della vita e del vivente non è utilizzato da Benjamin in senso metaforico:
È in senso pienamente concreto, e non metaforico, che bisogna intendere l’idea della vita e della sopravvivenza (Fortleben) delle opere d’arte[iii].
Ed è proprio nel tentativo di chiarire «questo senso pienamente concreto e non metaforico (völlig unmetaphoriscer Sachlichkeit)» che Benjamin si sofferma sulla nozione di vita.
La vita, dice Benjamin, non è solamente o principalmente qualcosa che «si debba attribuire solo alla fisicità organica (organische Leiblichkeit)»
(41), non è cioè semplicemente la proprietà di un corpo organico.
Nemmeno però è sufficiente pensarla in termini più estesi come
caratteristica di tutto ciò che ha un’anima (il riferimento di Benjamin è
qui Theodor Fechner). Ed è altrettanto insufficiente concepirla, magari
per attribuirle un significato più determinato e concreto, in relazione
ad alcune caratteristiche specifiche dell’animalità, quali la
possibilità di sentire (empfinden). Tutte queste sono
certo determinazioni della vita, ma nessuna di esse costituisce il suo
modo d’essere, nel senso nessuna di esse e nemmeno la considerazione
unitaria di esse esaurisce la semantica della vita.
Se si vuole davvero pensare la vita, dice Benjamin, non la si può pensare nei termini di una mera naturalità:
È solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia (Geschichte)
e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia al
concetto di vita. Poiché è in base alla storia, e non alla natura, per
tacere di una natura così incerta come il sentire o l’anima, che va
determinato, in ultima istanza, l’ambito della vita[iv].
La vita non è dunque secondo Benjamin
qualcosa che appartiene alla natura in quanto tale. Si dà vita, dice
Benjamin dove si dà storia. Solo nella storia, la vita è sé stessa. Così
facendo, Benjamin raccoglie con la potenza di un tratto la
straordinaria complessità che attraversa la cultura tedesca dal primo
romanticismo fino allo storicismo tardo ottocentesco.
Ciò che è decisivo, a mio parere, è il
riconoscimento benjaminiano che la vita della storia non è una vita che
si pone al di là della natura. Ciò che semmai Benjamin evidenza è, al
contrario, che la nozione di vita naturale è solo un’astrazione, un
tentativo di chiudere la vita dentro una dimensione che si pretende
separata dalla storia, senza in realtà poterlo essere.
Il compito del filosofo, infatti,
secondo Benjamin (e vale la pena qui ricordare che il termine che sta
per compito, che troviamo qui come anche nel titolo del saggio – ovvero Aufgabe
– significa anche vocazione, dovere, funzione, ruolo) non è quello di
contrapporre alla vita naturale una vita della storia, quanto invece «di
intendere ogni vita naturale in base a quella più ampia della storia».
Benjamin non contrappone dunque la vita
naturale a quella che la cultura idealistica avrebbe chiamato la vita
dello spirito, non pensa cioè che esista una vita meramente biologica in
contrapposizione alla quale si staglierebbe la vita del mondo storico e
quindi del mondo sociale e politico. La funzione del discorso
filosofico dovrebbe essere quella di mostrare l’inconsistenza di queste
cristallizzazioni, ovvero di scioglierne la rigidità rivelandone
l’unilateralità, l’astrattezza, ovvero il loro essere costruzioni a loro
volta storiche e dunque ideologiche. In questo senso, l’idea che
nell’umano si possa pensare una vita naturale che starebbe accanto alla
vita invece spirituale è il riflesso ideologico di una metafisica che ha
già preventivamente assunto e dato per scontato che natura e spirito
siano regni ontologici separati, che vengono definiti e individuati solo
a partire dalla loro contrapposizione.
III.
Detto in termini se si vuole banali e
certamente frettolosi, ciò che Benjamin invita a pensare (ed è un invito
che oggi più che mai è opportuno raccogliere) non è affatto il porsi al
di là della mera vita per accedere a una vita piena, come se nell’umano
esistesse una vita ‘semplicemente naturale’ separata da una vita invece
’storica’ e dunque politica. Si tratta invece di pensare la vita al di
là delle astrazioni e delle unilateralità, senza separare
artificialmente e ideologicamente la dimensione naturale e quella
storica, la dimensione biologica e quella politica, la dimensione
organica e quella sociale, la dimensione individuale e quella
comunitaria. In termini hegeliani, si tratta di pensare la vita nella
sua complessa concretezza, al di là delle astratte distinzioni
dell’intelletto.
In questo senso, quella che ad Agamben
appare come la difesa della “mera vita” è in realtà protezione di quella
medesima vita che si dà anche come vita politica e come vita
sociale, ovvero come piena vita. Tant’è che in questo caso la protezione
di quella che Agamben continua a considerare come la nuda vita è anche
protezione della vita degli altri. Per questo, come ho detto
inizialmente, sembra che Agamben rimanga vittima dell’astrazione che
egli stesso vuole denunciare. Sostenendo che i protocolli emergenziali
pensino alla vita solo in termini di pura esistenza, si trova egli
stesso a far propria questa riduzione, mancando così di cogliere la
dimensione concreta della vita, dentro la quale quella separazione viene
a sciogliersi.
La critica di Agamben alla riduzione
della vita a nuda vita va incontro a esiti paradossali proprio perché
muove da una concettualizzazione dualista, da cui non riesce in ultima
istanza a liberarsi. Un’autentica critica è invece possibile solo
all’interno di un orizzonte concettuale che proprio in quanto si pone al
di là delle opposizioni è perciò in grado di rilevare l’unilateralità
delle concezioni che pretendono di esaurirne il senso schiacciandolo
dentro l’unilateralità degli estremi. In questo senso, solo se si pensa
la vita nella sua complessità e fuori dalle astrazioni ideologiche che
tendono a considerarla o come semplicemente naturale o come qualcosa che
si costituisce al di là della natura, si è davvero nelle condizioni per
criticare qualsiasi riduzione unilaterale della vita.
Pensare la vita nella sua complessità –
quindi al di là delle astrazioni che la riducono a determinazioni solo
parziali – significa innanzitutto pensare la vita come struttura né
solamente naturalizzabile né solamente storicizzabile, quindi pensarla
come rapporto o nesso intrinseco tra ciò che tendiamo a pensare come il
“regno della natura” e ciò che tendiamo a pensare come il “regno della
libertà”.
Una tale prospettiva trova una sua
specifica articolazione dentro la discussione filosofica che si sviluppa
tra Kant e Hegel, per i quali la vita è una realtà e un concetto che
spezza tutti i dualismi: da quello tra anima e corpo a quello tra
soggetto e oggetto, da quello tra sostanza e processo a quello tra
natura e libertà.
Nel primo paragrafo della Critica della capacità di giudizio, Kant scrive:
non ci sono che due tipi di concetti che permettono altrettanti principi diversi della possibilità dei loro oggetti: cioè, i concetti della natura e il concetto della libertà.
(…) dunque, è giusto suddividere la filosofia in due parti, del tutto
diverse secondo i loro principi, cioè nella teoretica, la filosofia naturale, e nella pratica, la filosofia morale (è così infatti che si chiama la legislazione pratica della ragione secondo il concetto della libertà)[v].
La vita, però, non appartiene in senso
proprio né al mondo della natura, né al mondo della libertà. Anzi,
proprio perché non appartiene né all’uno né all’altro, di essa, secondo
Kant, non si dà concetto. La vita è per Kant strutturalmente
inconcepibile. Possiamo considerare gli esseri viventi, la loro
struttura organizzativa, la complessità del rapporto fra il tutto e le
parti che li costituisce, la loro specifica autopoiesi. Con questa
comprensione, però, non abbiamo concepito la vita. La forza formante,
l’autorganizzazione, ovvero la vita, rimane per Kant una unerforschliche Eigenschaft, una proprietà insondabile, un alcunché di imperscrutabile.
Dire però che la vita non appartiene né
al mondo della natura, né al mondo della libertà significa dire – ed è
questa sostanzialmente la mossa hegeliana che usa Kant per andare al di
là di Kant – che essa abita lo spazio liminare che separa e connette i
due ambiti, ovvero che essa certo non è né natura né libertà, ma anche, a
un tempo, che essa, proprio in quanto non è riducibile a nessuno dei
due estremi ha a che fare tanto con la natura quanto con la libertà.
Per Hegel la vita è dunque ciò che si
pone al di là di tutte le astrazioni con cui l’intelletto cerca di
controllare, vincolare e trattenere il reale. In questo senso la vita,
considerata nella sua concretezza, è ciò che fa esplodere le rigide
schematizzazioni e compartimentazioni dell’intelletto. E questo perché
la vita è, secondo Hegel, soggetto e oggetto, pensiero ed essere, anima e
corpo, finito e infinito, natura e libertà.
Porsi sulla scia di un pensiero come
quello sviluppato da Kant e Hegel, senza per questo pretendere insensate
attualizzazioni, è fruttuoso proprio per cercare di uscire dalle
tentazioni dualistiche che innervano, in modo peraltro non sempre
riconosciuto, un’impostazione come quella di Agamben.
Finché si assume che da una parte ci sia
la nuda vita, intesa come mera esistenza, e dunque come mera natura, e
dall’altra la vita nella sua dimensione storica, e quindi nella sua
dimensione sociale e politica , ovvero come luogo di articolazione della
libertà, ci si continua a muovere dentro un dualismo che chiede a
ciascuna delle dimensioni di entrare necessariamente in conflitto l’una
con l’altra e si legittima in questo modo il dominio di una parte
sull’altra e quindi la riduzione dell’una all’altra.
Pensare la complessità della vita
significa allora pensare in che senso la sua stessa dinamica – la
dinamica della vita – sia il nucleo generatore della libertà e come solo
la libertà sia in grado di realizzare la dinamica che la vita attiva.
Pensare la complessità della vita, ancora, significa pensare il
radicamento della libertà nella vita, nella sua peculiare autonomia,
nella sua intrinseca generatività e nella sua capacità di difendersi
dall’entropia e al tempo stesso il radicamento della vita nella libertà,
ovvero nella capacità di essere inizio di sé, di essere norma a sé, di
essere movimento in vista della costituzione e della realizzazione di
sé.
Se c’è qualcosa, dal mio punto di vista,
che le vicende di questi giorni richiedono di pensare e ripensare è
dunque la sclerotizzazione delle nostre prassi discorsive dentro
opposizioni che si reggono solo a partire dalla loro reciproca
unilateralità.
Pensare l’innaturalità della natura e la
naturalità dello spirito, ovvero ripensare in dialogo con le scienze
della natura la nozione stessa di natura e ripensare in dialogo con le
scienze umane ciò che la tradizione chiamava il mondo dello spirito,
ovvero l’ambito della libertà e dunque la dimensione intersoggettiva e
propriamente politica, senza ridurre per questo l’una all’altra e
tuttavia cogliendone i nessi proprio a partire dalla nozione di vita è
forse uno dei compiti (ovvero, ancora una volta, delle vocazioni, dei
doveri, delle funzioni, dei ruoli) a cui la filosofia è oggi più che mai
chiamata.
Note
[i] W. Benjamin, Per la crtica della violenza, in Id., Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 5-30, qui p. 28).
[ii] W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Angelus Novus, cit., pp. 39-52, qui p. 41).
[iii] Ibidem.
[iv] Ibidem.
[v] I. Kant, Critica della capacità di giudizio, trad. it. a cura di L. Amoroso, Milano 19982, p. 73.
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