por Daniel Link*
Sono grato a EXIT Media Distribuzione per l'invito a partecipare al lancio di Puan a Roma. Devo giustificare la mia presenza su questo palco? Penso di sì.
Sto
tenendo un corso all'Università di Roma Tre. Insieme ai dottorandi
che mi accompagnano in questo corso, abbiamo deciso di cimentarci
nell'utopia linguistica di capirci non in una lingua comune, ma
parlando ciascuno la propria lingua. Finora ha funzionato bene, ma
Federico ha pensato che sarebbe stato meglio passare alla lingua
italiana. Ho accettato con piacere la proposta perché sto leggendo
questo testo in italiano (uscito da un programma di intelligenza
artificiale) con un accento terribile. È quello che a Buenos Aires
chiamano “cocoliche”.
Mi scuso per aver rovinato l'italiano in
questo modo, ma mi permette di fare l'esperienza delle "lingue a
contatto", che, credo, dovrebbe essere l'orizzonte di tutti:
tutte le lingue sono gerghi e tutti i popoli sono bande.
Vengo da Buenos Aires (anche se non ci sono nato) e dall'Università di Buenos Aires (dove però non mi sono formato). Ho insegnato alla Facoltà di Filosofia e Lettere per molti anni, trentaquattro dei quali come titolare della cattedra di Letteratura del Novecento (una materia di filologia comparata).
Il libro che racconta la mia formazione alla lettura è stato pubblicato da Gallimard a Parigi nel 2022 e quest'anno la casa editrice napoletana Cronopio pubblicherà la mia ultima lezione tenuta in quella cattedra. Posso dire che, per il mondo, Puan sono io.
La Facoltà di Filosofia e Lettere, negli anni, ha cambiato varie sedi. Negli anni Sessanta, si trovava nel microcentro di Buenos Aires, in via Viamonte, uno dei centri dell’avanguardia artistica argentina, dove artisti, scrittori e poeti erano soliti incontrarsi. In seguito, si trasferì in via Independencia, vicino a una stazione ferroviaria, nel quartiere di Once. Poi, durante la ripresa democratica, si spostò in via Marcelo T. de Alvear e, infine, si trasferì nell'edificio attuale, una ex fabbrica di tabacco ristrutturata, che si trova, precisamente, in via Puan.
Forse a causa di questa tendenza alla migrazione costante, la facoltà è sempre stata identificata con la strada in cui si trovava: Viamonte, Independencia, Marcelo T. e, ora, Puan. Sono quindi un “puaner”, se non per nascita, per scelta.
La sede è orribile (l'hanno vista nel film). Era stata progettata per una popolazione studentesca molto più piccola, ma poi hanno iniziato ad aggiungere aule ovunque, con il risultato di un labirinto impraticabile che molti non conoscono nemmeno. Una volta, in uno degli ascensori (che non funzionano quasi mai) ho incontrato una famiglia (madre, figlia e figlio) che tornava dalla spesa e saliva al quinto piano (l'ultimo). Si sospetta (la voce gira da tempo) che abitino in qualche angolo tra l'Istituto di Studi Orientali e il Centro di Studi di Genere. Ma non lo sapremo mai con certezza.
I corsi che vi si insegnano sono ovvi: Lettere (moderne e classiche), che è stata la mia materia di insegnamento, e Filosofia, in primis (perché è nel nome dell'istituzione) ma anche Storia, Scienze dell'educazione, insomma: le discipline umanistiche che, come racconta bene il film Puan, stanno vivendo in Argentina, ma ovunque nel mondo, un momento critico.
Fino dal ritorno della democrazia, nel ottantatré, la filosofia analitica di origine anglosassone fu quella dominante negli studi filosofici. In seguito, le derive epistemologiche e politiche hanno reso la filosofia europea continentale il paradigma egemonico. Questa situazione perdura tuttora, anche se iniziano a manifestarsi alcune crepe decoloniali.
I
nomi "filosofia" e "filosofo" sono interamente
europei. Quando si parla di America, si dice “il pensatore
colombiano” o “il intellettuale argentino”. Non so se si
tratti di una riserva europea o se sia dovuta alla nostra ripugnanza
a giocare con i giocattoli dei ricchi. Se qualcuno si presentasse
come “filosofo argentino”, sarebbe immediatamente sospettato di
impostura. La "teoria", invece, è più democratica. Posso
dire di essere un "teorico" della letteratura, il mio
ambito di lavoro è la "teoria" e lo dico con una certa
legittimità.
Ho rimandato la visione del film Puan
perché, essendo cresciuto e invecchiato in quell'istituto, non mi
sembrava il caso di vedere riprodotte sullo schermo le miserie che
conosco così bene.
Ma quando il film è apparso sul catalogo di Amazon Prime Video, non ho più resistito e ho deciso di vederlo. Non è un film che entrerà nelle liste dei “migliori film di sempre”, ma non è neanche un brutto film e ha anche un lato molto toccante per me: vuole “discutere di idee”, cosa a cui il cinema sembra aver rinunciato.
Molto presto mi sono reso conto che le idee che Puan si proponeva di discutere erano esattamente le stesse che avevo proposto nel mio ultimo corso a Puan, l'anno scorso! Sono così entrato in uno strano stato di panico e di estasi, allo stesso tempo.
La trama ruota intorno a una cattedra vacante a causa di un decesso (mi hanno detto che questo episodio deriva da un fatto reale) e vede due aspiranti professori ordinari contendersi la cattedra: il primo segue alla lettera la teoria (hobbesiana) dello Stato dell'uomo con cui ha lavorato per circa trent'anni; il secondo, nuovo arrivato (un vero e proprio stronzo, come vedrete alla fine del film) abbraccia invece la causa spinoziana piuttosto che quella hobbesiana.
Questa contrapposizione tra Hobbes e Spinoza è il presupposto del libro di Paolo Virno Grammatica della moltitudine; libro su cui ho discusso a lungo nel corso dell’anno scorso, così come negli anni precedenti.
Il punto di vista di Virno è che Hobbes postula un'idea di “popolo” solidale con lo Stato, senza il quale lo Stato non può “pascere”. Spinoza avrebbe piuttosto optato per la “moltitudine”, una nozione destituente che, all'epoca, perse il dibattito e fu ripresa solo alla fine del XX secolo da Toni Negri e altri pensatore italiani.
Forse, senza saperlo, stavo pensando insieme a María Alché e Benjamín Naishtat, che hanno scritto e diretto il film, ad una via d'uscita dalle impasse della storia. Appena ho finito il film, mi sono detto: "Ciao, Puan. Ti saluto".
Voglio commentare solo due momenti del film. Il primo è molto affascinante: il protagonista si reca a fare omaggio al defunto collega, ordinario di Filosofia Politica, e incontra una persona che, per la morfologia del corpo, scambia per una cameriera sconosciuta, ma che in realtà è una professoressa boliviana in Filosofia che gli fa un invito accademico che lui esiterà ad accettare. Per rendere più comprensibile l'equivoco, è come se qualcuno incontrasse Gayatri Spivak e la scambiasse per un'impiegata di un "Bangla". È precisamente su un equivoco come questo che si basa la profonda ironia del film rispetto alla "filosofia" coltivata nella facoltà.
Il secondo momento che voglio commentare è il finale, che ho odiato appena l'ho visto perché mi è sembrato una sorta di Deus ex machina: nulla di quanto previsto nella trama lo faceva presupporre. Poi, me ne sono innamorato per la sua forza anticipatrice: l'università chiusa e in default.
Non è che il film abbia poteri di “chiaroveggenza”, ma ha colto qualcosa che era già nell'aria e che anche il governo ultra-liberista che attualmente governa il Paese aveva previsto: l'istruzione umanistica è in crisi. Questo è dovuto in parte alla radicale trasformazione dell'orizzonte culturale (ormai totalmente digitalizzato) e in parte all'odio per le prospettive critiche coltivate nei centri di dissidenza che sono le facoltà umanistiche di tutto il mondo.
Harvard è un'istituzione odiosa, ma si sa che è ormai sul punto di scomparire proprio a causa dell'assalto della destra reazionaria che governa gli Stati Uniti. Il mio rapporto con Roma Tre è stato turbolento a causa della recente riforma della legge finanziaria che ha comportato un taglio del venti per cento del suo bilancio.
Cosa fare, da dove cominciare? Queste due famose domande ci tornano in mente in questo momento di crisi. Spero che abbiate delle risposte.
*Agradecimiento especial a Daniele Balicco y Camilla Cattarulla
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